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LA NOZIONE DI “BARBARO” NEL N.T.

6 novembre 2021

 

«Io sono debitore tanto ai Greci quanto ai Barbari, tanto ai savi quanto agli ignoranti» (Paolo di Tarso, Rm 1:14, circa 57 d. C.).

 

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«Qui non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3:11).

 

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«Selvaggio, barbaro, civilizzato: chi sei?» Álvar Núñez Cabeza de Vaca (1542).

 

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Il Signore Gesù nacque a Betlemme prima del 4 a.C. durante il principato di Augusto, che guidava un immenso impero di cultura greco-romana. Quanto alla religione, preminente era il cosiddetto “paganesimo”. Vi era poi la minoranza dei Giudei, i quali si consideravano da più di un millennio appartenenti al popolo eletto di Dio, Israele. Di là dai confini (latino: limes) dell’Impero romano, e segnatamente da quello settentrionale posto a difesa dalla minaccia germanica, vivevano i Barbari. La crocifissione di Cristo, avvenuta forse nel 30 d.C. durante il principato di Tiberio, costituisce il fatto storico decisivo per tutta l’umanità sino alla fine del presente sistema di cose (Mt 28:18-20). Le distinzioni sociali (libero, schiavo), di sesso (uomo e donna: Gal 3:28), religiose (giudaismo e paganesimo) e culturali (Greco-Romani e Barbari) esistenti allora persero ogni forza dinanzi alla gloria di Cristo e all’unità da lui portata alle genti grazie al vangelo. È così che l’apostolo Paolo, cittadino romano, poté affermare con pieno vigore, scrivendo (da Roma?) ai cristiani in Colosse verso il 61-63 d.C., che «non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti» (Col 3:11). Altrove Paolo aveva scritto: «Se dunque uno è in Cristo, egli è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate: ecco, sono diventate nuove» (2Cor 5:17; Gal 6:15).

A questo punto occorre chiedersi: qual è la nozione di “barbaro” nel N.T.? Che cosa significa “Scita” in Col 3:11?

La parola “barbaro” evoca da un lato l’appartenente a quei popoli, per lo più d’origine germanica, che varcarono il limes (confine) di Roma a un dato periodo della sua storia (determinandone forse il crollo, come vogliono alcuni specialisti; il dibattito è ancora aperto in merito alla caduta della parte occidentale dell’Impero); dall’altro, l’incivile, l’illetterato, il diverso. Anche allora, come oggi, la prospettiva unilaterale di giudizio dell’uomo nei confronti degli altri non è cambiata. Nella storia l’alterità (la distinzione tra l’uno e l’altro) è sempre esistita.

 

BARBARO: ASPETTO FILOLOGICO E ADDENTELLATI

Il vocabolo appartiene all’amplissima famiglia delle lingue indoeuropee (antico indiano barbaras, latino balbus, sloveno brbrati, greco barbaros). L’etimo di “barbaro” è di tipo onomatopeico (“imitativo”, “che riproduce un suono”). Difatti, esso designa il balbuziente, colui che pronuncia suoni incomprensibili: dunque, per i Greci il primo significato è quello di “alloglotto” (= parlante una lingua diversa): esempi in Aristofane, Corippo, Omero, Sofocle, Filostrato ed Erodoto. Quest’ultimo in un suo passo famoso (Le storie, II) parla delle sacerdotesse dell’oracolo di Dodona, dette “colombe”. Così egli tenta di spiegare lo strano appellativo: «Colombe, poi, io credo siano state chiamate dai Dodonei le donne per questo, perché erano barbare, e sembrava loro che emettessero voci simili a quelle degli uccelli. Dicono poi che dopo qualche tempo la colomba parlasse con voce umana, alludendo a quando la donna parlò una lingua a loro comprensibile; invece, finché parlava in lingua straniera sembrava loro che emettesse suoni a mo’ di un uccello»).

Il secondo importante significato è quello di “allogeno” (= di altra stirpe o nazione), cioè non greco. L’idea di appartenere ad una medesima nazione, sia pure modo frammentario riguardo all’unità politica, spinse i Greci (o Elleni) a definire, tuttavia senza alcun senso spregiativo, “barbare” le altre genti. E allorché la cultura dell’ellenismo assurse a livelli eccelsi, questo secondo significato acquisì una connotazione assai forte, sicché l’umanità parve compendiarsi nel dualismo Elleni o Barbari, questi ultimi essendo stranieri, rozzi e incivili moralmente. Tuttavia, con l’emergere e il consolidarsi dell’impero ellenistico di Alessandro Magno, che allargò considerevolmente i confini conoscitivi e politici dei Greci con l’inglobare nuove culture, sono considerati “barbari” quei popoli che vivono ai margini dell’area culturale e politica ellenistica. Dapprima considerati anch’essi barbari, i Romani seppero in seguito ellenizzarsi a tal punto da essere inclusi tra gli Elleni (più avanti nei secoli, nascerà l’unica distinzione dell’umanità in Romani e non-Romani). Con il diffondersi del potere di Roma, seguì un ulteriore sviluppo della nozione di “barbaro” che vale ora “estraneo alla cultura greco-romana”, “forestiero”, “straniero” dal carattere feroce e indomito. I Barbari erano popoli dai costumi fieri e sanguinari, fuori dell’orbita politica di Roma, in quanto stanziati di là dal limes dell’Impero.

IL TERMINE ITALIANO “BRAVO”

È curioso notare che il nostro “bravo”, tramite lo spagnolo, potrebbe derivare dalla fusione del greco barbaros e dal latino pravus (“malvagio”). In italiano “bravo” ha due significati: il primo si riferisce a chi è forte, abile e coraggioso (i barbari erano selvaggi e combattivi); il secondo, di manzoniana memoria nei Promessi Sposi, allo sgherro arrogante, guardia del corpo al soldo dei signori, diffuso nell’Italia nel Seicento.

 

IL NUOVO TESTAMENTO E LA NOZIONE DI BARBARO

Nel N.T., scritto in greco, bàrbaros compare solo cinque volte (At 28:2,4; 1Cor 14:11; Rm 1:14; Col 3:11), tutte in ambito paolino (Paolo e Luca, suo collaboratore). E non è un caso, vista la missione di Paolo: predicare il Vangelo ai Gentili. Analizziamo ora i brani.

 

ATTI 28:1-5

«Dopo essere scampati, riconoscemmo che l’isola si chiamava Malta. Gli indigeni (“barbari” nel testo greco) usarono verso di noi bontà non comune; infatti, ci accolsero tutti intorno a un gran fuoco acceso a motivo della pioggia che cadeva e del freddo. Mentre Paolo raccoglieva un fascio di rami secchi e li poneva sul fuoco, ne uscì fuori una vipera, risvegliata dal calore, e gli si attaccò alla mano. Quando gli indigeni videro la bestia che gli pendeva dalla mano, dissero tra di loro: “Certamente, quest’uomo è un omicida perché, pur essendo scampato dal mare, la Giustizia non lo lascia vivere. Ma Paolo, scossa la bestia nel fuoco, non ne patì alcun male».

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Siamo intorno al 61 d.C. Paolo, dopo essere stato catturato a Gerusalemme nel 58 (At 21:26ss) e aver trascorso circa due anni in prigionia a Cesarea, riesce a ottenere udienza dal tribunale dell’imperatore (era un diritto spettante a ciascun cittadino romano; Paolo era civis Romanus: cfr. At 16:37; 22:28; 23:7). Accompagnato da Luca e Aristarco e posto sotto la responsabilità di un certo Giulio centurione della coorte Augusta, l’apostolo inizia l’avventuroso viaggio che lo porterà a Roma (At 27:1ss). La sofferta navigazione si conclude a Malta (At 27:6-44). I naufraghi traggono sicuro beneficio dalle cure dei “barbari” locali. E Luca non dimentica di elogiarli («usarono verso di noi bontà non comune»). Per designare gli indigeni, qui lo scrittore sacro usa il termine bàrbaroi poiché, in genere, i Maltesi parlavano il fenicio-punico (Malta cadde sotto l’influenza dei Fenici a partire dal VII secolo a.C.). Orbene, essendo il dialetto fenicio-punico affine all’ebraico e all’aramaico (che Paolo conosceva bene), sarà da pensare che forse un primo contatto tra i naufraghi e i soccorritori sia avvenuto proprio su tale base.

Ad ogni modo, Luca, il medico diletto (Col 4:14), d’origine non ebraica (cfr. Col 4:10-14; Eusebio e Girolamo lo fanno oriundo d’Antiochia in Siria), chiama “barbari” quei Maltesi incontrati dopo il naufragio in quanto essi non parlavano la lingua greca, vale a dire non erano grecofoni. Dunque, si tratta, come abbiamo visto, di un significato pienamente conosciuto nel mondo ellenistico.

 

1CORINZI 14:9-11

«Così anche voi, se con la lingua non proferite un discorso comprensibile, come si capirà quello che dite? Parlerete al vento. Ci sono nel mondo non so quante specie di linguaggi e nessun linguaggio è senza significato. Se quindi non comprendo il significato del linguaggio sarò uno straniero (greco: bàrbaros) per chi parla, e chi parla sarà uno straniero per me».

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In 1Corinzi 14, Paolo apre un’argomentazione rivolta a dimostrare la superiorità della profezia sul parlare in altre lingue (= glossolalia). Le lingue facevano parte di quelle manifestazioni miracolose che dovevano servire come segno per i non credenti (v. 22), a conferma e sostegno della predicazione del Vangelo (Gv 20:30-31; Mc 16:20; Ebrei 2:14). Le lingue non erano quindi per i credenti, i quali non avevano più bisogno di alcuna conferma. La profezia, piuttosto, sarebbe stata un segno per i credenti: edificazione, esortazione e consolazione. Nel contesto di tale discorso, Paolo adopera il vocabolo “barbaro” nell’accezione originaria (che parla un idioma incomprensibile all’ascoltatore).

 

ROMANI 1:14

«Io sono debitore tanto ai Greci quanto ai Barbari, tanto ai savi quanto agli ignoranti».

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Promuovere la diffusione del Vangelo di Cristo tra i Gentili (= non Ebrei): in questo proposito è racchiuso tutto il senso dell’attività di Paolo, il quale, essendo per l’appunto l’inviato (= apostolo) alle genti si ritiene in debito verso tutti, giacché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3:23). In quella formidabile opera che è la lettera spedita ai cristiani in Roma da Corinto pressappoco nel 57-58 d.C., egli esprime bene il concetto: il suo debito verso tutti si condensa nella dizione Greci / Barbari.

In Paolo ricorre spesso la distinzione tra Greci e Giudei (cfr. Rm 1:16; 2:9,10; 10:12; Gal 3:28, Col 3:9, 11; 1Cor 1:22, 24; 10:32; 12:13). Nell’ambito, poi, dell’umanità non israelitica, l’apostolo fa uso della tradizionale differenziazione tra Greci e Barbari, la quale nella successiva apposizione di Romani 1:14 trova il suo profilo intellettuale e culturale: saggi / ignoranti. I Barbari sono i rappresentanti di una cultura poco o nient’affatto ellenizzata, spettro di un modus vivendi rozzo e quasi belluino. Ma, di fronte a Dio, nessuna differenza sussiste tra Greci (vale a dire i sapienti e gli affinati detentori di una cultura superiore), Barbari (vale a dire gl’ignoranti, i retrogradi, i primitivi) e Giudei. L’umanità tutta (Greci, Ebrei, Barbari) ha bisogno della salvezza portata da Cristo tramite il vangelo (Mt 28:19-20; Mc 16:15-16, Rm 1:16-17; 1Tm 2:3-4). L’universalismo cristiano trova in Paolo il massimo assertore.

 

COLOSSESI 3:11

«Qui non c’è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti».

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In questo passo, Paolo, a sostegno della sua concezione che nella Chiesa di Cristo viene abolita qualunque distinzione (razziale, religiosa, culturale e sociale) esistente tra gli uomini, adduce una sequenza di otto membri: Greco, Giudeo, circoncisione, incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero. Alle solite coppie antitetiche (Greco / Giudeo; circoncisione / incirconcisione; schiavo / libero), aggiunge Paolo quella inedita di barbaro / Scita. Invero, nella serie offerta da Paolo, più che di antitesi si dovrebbe parlare di semplice aggiunta, con valore accrescitivo. Se così fosse, allora la menzione degli Sciti dopo quella di Barbari costituirebbe esempio particolarmente aspro di popolo barbaro (gli Sciti furono un popolo indoeuropeo nomade della steppa della Russia meridionale comparso sulla scena vicino-orientale al principio del secolo VII a.C.; nel N.T. vengono citati solo da Paolo qui in Colossesi).

 

CONCLUSIONE

Cristo è il Kyrios, il Signore, che, in quanto tale, detiene il potere nella storia. Egli ha fondato una nuova umanità (la Chiesa) composta di veri cristiani. Questi sono chiamati nella Chiesa, che è il Corpo di Cristo, per il loro servizio d’adorazione e di ministero a Dio. Se nelle società degli uomini le differenze non verranno mai meno, e si avranno perciò sempre ricchi e poveri, liberi e schiavi e via dicendo, invece nella Chiesa di Cristo nulla di tutto ciò esiste: difatti, come diceva Paolo, che più di altri ha compreso il significato eterno e universale della croce di Cristo, nella chiesa quel che importa è l’essere una nuova creatura (kainè ktìsis; Gal 6:15; 2Cor 5:17).

 

Arrigo Corazza