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Sotto l’aspetto della storia delle religioni, il concetto di “santità” compare sì in molte di esse, ma assume particolare coloritura con il cristianesimo, che riprende antichi motivi ebraici relativi alla santità di Dio (Lv 19:2) e li perfeziona in senso cristologico (l’apostolo Paolo scrive ai cristiani in Corinto, ossia «ai santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi, con tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore loro e nostro», 1Cor 1:2).

 

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TERMINOLOGIA DELLA SANTITÀ

(a) in ebraico (lingua originaria dell’A.T. con l’aramaico), si fa uso dei termini qadòsh (che designa la separazione del sacro dal profano) e chèrem (che esprime quanto viene sottratto all’uso profano; cfr. l’arabo harem, “gineceo”, “luogo riservato alle donne”);

(b) nel greco neotestamentario s’adopera prevalentemente il gruppo linguistico hàghios (“santo”, “sacro”, “degno d’onore”);

(c) in latino la radice comune sac– fornisce le due forme lessicali, entrambe penetrate nell’italiano, sacer (“sacro”, “consacrato ad una divinità”; donde sacrum, sacerdos, sacramentum, sacrificium, sacratio hominis) e sanctus (participio aggettivale di sancire, “santo, inviolabile, sacro”; donde sanctitas, sanctitudo, sanctimonia).

Secondo la Bibbia, l’unica e vera guida per il credente, i “santi” sono, invece e più semplicemente, i cristiani, cioè tutti coloro che ubbidiscono alla Parola di Dio e vivono di conseguenza. Come abbiamo visto, la parola “santo” significa: “separato, appartato”. Gli Ebrei, infatti, santificavano (vale a dire: “separavano, appartavano, riservavano”) a Dio giorni particolari, parte dei loro beni, terreni, oggetti, e via dicendo. Dio stesso, nell’A.T., santificò il settimo giorno (sabato) separandolo dagli altri giorni della settimana per farlo essere il “giorno del riposo” (“sabato” è dall’ebraico shabàt, “smettere di compiere qualcosa”, donde “riposare”), dal momento che nel settimo giorno egli «si riposò di tutta l’opera che aveva fatta» (Gn 2:3). Il quarto comandamento del Decalogo ebraico recitava: «Ricordati del giorno del riposo per santificarlo. Lavora sei giorni e fa’ in essi l’opera tua; ma il settimo giorno è giorno del riposo sacro al Signore» (Es 20:8-10). Un altro esempio riguarda Aronne e i suoi discendenti, i Leviti, che vennero consacrati e santificati perché potessero esercitare l’ufficio di sacerdoti (Es 28:41). Aronne e i Leviti furono così “separati, scelti” con il preciso scopo di servire il Signore Dio. Anche nel N.T. troviamo esempi di cose e persone che devono essere santificate, vale a dire “appartate”. Paolo scrive a Timoteo: «Tutto quello che Dio ha creato è buono; e nulla è da riprovare, se usato con rendimento di grazie, perché è santificato dalla Parola di Dio e dalla preghiera» (1Tm 4:4-5).

Nel N.T. il termine “santo” è applicato ai cristiani per indicare sia la loro separazione spirituale dal modo di pensare tipico del mondo, sia la loro conseguente consacrazione a Gesù mediante una vita guidata dalla fede. Decidendo di diventare cristiano, il peccatore, abbandonate per sempre la morale e la filosofia di questo mondo transitorio, segue la via tracciata da Cristo, compiendo ogni sforzo per essergli sempre gradito. Paolo indirizza a fratelli in Cristo, vivi!, parole di questo tenore: «ai santificati in Cristo Gesù chiamati ad essere santi» (1Cor 1:2); «alla chiesa di Dio ch’è in Corinto, con tutti i santi che sono in tutta l’Acaia» (2Cor 1:1); «ai santi che sono in Efeso» (Ef 1:1). I santi sono dunque tutti i cristiani che hanno conosciuto il Vangelo e che lo praticano mentre sono in vita, su questa terra.

S’è detto che per Dio i santificati sono i cristiani. Sarebbe tuttavia errato pensare ad essi come a creature immuni dal peccato. Proprio dalle lettere ai Corinzi sappiamo che quei primi cristiani (chiamati “santi” da Paolo) erano ben lungi dall’essere immacolati. L’apostolo scrive loro una lettera piena di rimproveri, di ammonimenti, di esortazioni al fine di produrre in essi il pentimento dei peccati che stavano commettendo. Ogni vero cristiano tende a migliorare, giorno dopo giorno, per compiacere il Signore che lo ha riscattato dalla morte spirituale mediante il sacrificio di Cristo Gesù. Guai se non fosse così, guai se il cristiano smettesse di ascoltare le riprensioni divine comunicate dalla Bibbia, guai se la sua fede non fosse più radicata nel Vangelo, guai se il Vangelo stesso giungesse a disturbarlo! Il santificato ha bisogno, ogniqualvolta peccasse, di tornare direttamente (tramite Cristo) a Dio, di confessargli i propri peccati invocandone il perdono: «Se noi diciamo d’essere senza peccato inganniamo noi stessi, e la verità non è in noi. Se confessiamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto da rimetterci i peccati e da purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non aver peccato lo facciamo bugiardo e la sua Parola non è in noi» (1Gv 1:8). Non esistono, pertanto, uomini senza peccato giacché «tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio» (Rm 3:23).

A questo punto domandiamoci: quale culto va reso ai santi del cattolicesimo? Nessuno, è la risposta che Dio ci dà nel N.T., in cui non rinveniamo un solo esempio di culto rivolto a cristiani vivi o morti. Negli Atti degli Apostoli (14:8-18) ricorre un episodio che distrugge quanto affermato dal cattolicesimo in merito al culto dei santi. Nella città di Listra, in Asia Minore (nell’odierna Turchia), Paolo miracolò un uomo nato zoppo. La folla che aveva assistito alla scena ritenne che l’apostolo fosse una divinità, sicché pensò bene di offrire sacrifici in suo onore. Ma Paolo e Barnaba, suo compagno di viaggio, «si stracciarono le vesti e balzarono in mezzo alla folla, gridando: Uomini, perché fate queste cose? Anche noi siamo esseri umani simili a voi; e vi predichiamo che da queste vanità vi convertiate al Dio vivente …» (At 14:14-15).

Di quale migliore attestazione si ha bisogno per capire che solo Dio deve essere oggetto della nostra venerazione?

 

Arrigo Corazza