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PENSIERI SULLA PRIMA CORINZI (quarta parte)

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Presento una serie di riflessioni sulla prima lettera di Paolo ai Corinzi scritte nel 1995, ma mai pubblicate finora. Questa è la quarta parte.

 

* * *

 

DISTINZIONE TRA CONOSCENZA E CARITÀ (1Corinzi 8)

«Quanto alle carni sacrificate agli idoli, sappiamo che tutti abbiamo conoscenza. La conoscenza gonfia, ma l’amore edifica» (1Cor 8:1).

«In ogni cosa vi ho mostrato che bisogna venire in aiuto ai deboli lavorando così, e ricordarsi delle parole del Signore Gesù, il quale disse egli stesso: “Vi è più gioia nel dare che nel ricevere”» (At 20:35).

 

Nel Regno (Chiesa), la distinzione tra conoscenza (greco: gnosis) e carità, amore (greco: agàpe) si rivela di fondamentale importanza nella gestione dei rapporti tra credenti. Senza tale distinzione possono capitare casi in palese contrasto con il dettame scritturale. In generale, l’idea di fare un sacrificio per gli altri difficilmente attraversa la mente dell’uomo. Dispiace quando anche tra i cristiani si nota quest’abitudine. Eppure, il cristianesimo è cura reciproca, sacrificio, scelta accurata tra il bene e il male, proposizione e promozione di valori morali e sociali infinitamente superiori all’egoismo individuale, immemore dei ricchissimi doni distribuiti da Gesù alla chiesa. Nel Regno si avverte la necessità di dimostrare maggiore misericordia, pietà, partecipazione e quant’altro. La memoria storica di taluni cristiani è corta: Cristo ha dato tutto per noi, dimostrando nei fatti di adempiere la sua Parola riportata da Paolo: «Vi è più gioia nel dare che nel ricevere» (At 20:35). Ciò gli è costato la croce, non altro. Molti lo dimenticano.

 

UN ESEMPIO ILLUMINANTE DI RINUNCIA (1Corinzi 9)

«Nessuno cerchi il proprio vantaggio, ma ciascuno cerchi quello degli altri» (1Cor 10:24).

«Egli morì per tutti, affinché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro» (2Cor 5:15).

«Io molto volentieri spenderò e sacrificherò me stesso per voi. Se io vi amo tanto, devo essere da voi amato di meno?» (2Cor 12:15).

«Nessuno di noi vive per se stesso, e nessuno muore per se stesso; perché, se viviamo, viviamo per il Signore; e se moriamo, moriamo per il Signore. Sia dunque che viviamo o che moriamo, siamo del Signore» (Rom 14:7-8).

«Sono stato crocifisso con Cristo: non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me! La vita che vivo ora nella carne, la vivo nella fede nel Figlio di Dio il quale mi ha amato e ha dato se stesso per me» (Gal. 2:20).

 

Seguendo il filo del ragionamento precedente, si può dire correttamente che il cristianesimo si vive soltanto nel Regno, nella comunione dei santi giustificati dal sangue del Redentore. È cruciale capire che, una volta diventato cristiano, nessuno vive più per se stesso (2Cor 5:15; Rm 14:7), ma per il Regno e i suoi cittadini. In tal modo si diventa partecipi e responsabili gli uni degli altri. C’era una volta un tale che soleva dire nella chiesa: «Io non voglio niente da nessuno e non do niente a nessuno». Così dicendo ribaltava totalmente queste parole di Gesù tratte dal sermone sul monte: «tutte le cose che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro; perché questa è la legge e i profeti» (Mt 7:12). Insomma: la Parola di Cristo al contrario. Quel tale, che viveva solo del proprio puro egoismo, si piccava (presumeva) di essere chissà chi, ma era semplicemente un incredulo, come ha dimostrato in seguito creando una marea di guai ai fratelli. La sua fede riposava pacifica soltanto su se stesso – altro che Cristo e i fratelli! «Se uno pensa di essere qualcosa pur non essendo nulla, inganna se stesso» (Gal 6:3). Non era fatto per la vita comunitaria voluta da Cristo, ma per quella che piaceva a lui …

Vivere nella Chiesa esige molti sacrifici, tanta volontà di fare bene e di equiparare – grazie alla sapiente Parola di Dio – cristiani di cultura e spirito assai diversi tra loro. Prima di tutto, questa vita richiede la capacità, la virtù, la pazienza di rinunciare, laddove necessario, ai diritti propri della libertà in Cristo (Gv 8:32) per testimoniare, praticare e rendere vivo il primato della carità.

 

«Sopportatevi gli uni gli altri e perdonatevi a vicenda, se uno ha di che dolersi di un altro. Come il Signore vi ha perdonati, così fate anche voi» (Col 3:13).

«Ora noi, che siamo forti, dobbiamo sopportare le debolezze dei deboli e non compiacere a noi stessi» (Rm15:1).

 

Dovremmo tutti sforzarci di vivere l’esistenza nel Regno con il medesimo sentimento di Paolo circa il suo ministero, descritto magnificamente in 1Cor 9. L’apostolato di Paolo è esempio di rinuncia ai propri diritti e libertà in Cristo in nome dell’amore per il Regno e per i fratelli. Ma è stato così, in genere, nella storia delle chiese di Cristo? Abbiamo avuto di Paolo il medesimo sentimento (coscienza, amore, consapevolezza …) nel promuovere l’evangelizzazione? Piuttosto, non hanno spadroneggiato tra noi ignoranza, mancanza di carità, particolarismo, pregiudizio e via dicendo? Abbiamo mai davvero capito e sperimentato praticamente la differenza tra conoscenza e carità?

 

«Con i deboli mi sono fatto debole, per guadagnare i deboli; mi sono fatto ogni cosa a tutti, per salvarne ad ogni modo alcuni» (1Cor 9:22).

La libertà evangelica di cui godiamo in Cristo dovrebbe invece spingerci a fare il massimo (1Cor 9:22) per adempiere la nostra missione, all’interno e all’esterno del Regno: guadagnare i peccatori a Cristo, e non a noi. Cristo, poi, dona i peccatori alla chiesa, ch’è il corpo di quanti sono sulla via della salvezza (At 2:47). Dunque, Paolo parla di una partecipazione totale al Vangelo, per la quale fa tutto ciò che gli è possibile. Beninteso, il contesto indica che si tratta chiaramente di una rinuncia ai propri diritti in favore del Vangelo, e non di abbandonare la verità divina per compiacere i peccatori. Non comprendere questo significherebbe travisare totalmente l’animo paolino (cfr. 2Pt 3:15-16). I cristiani sopportano tutto e tutti, ma non i malvagi («io conosco le tue opere, la tua fatica, la tua costanza; so che non puoi sopportare i malvagi e hai messo alla prova quelli che si chiamano apostoli ma non lo sono e che li hai trovati bugiardi», Ap 2:2).

 

Arrigo Corazza